Dalla pagina del Diario di Bordo del 23 settembre 1957

Dopo un anno di lavoro e dopo aver superato difficoltà di ogni tipo, mi trovo ora dentro a questo spazio aereo dove la gravità delle cose è assente.

Dall’unica finestra vedo il cielo, pannello dinamico di luce, nel quale riesco a leggere le risposte ai miei curiosi problemi che tengono viva la tensione e l’attenzione verso le troppe incognite che ancora tormentano le equazioni del mio sistema.

Prima fase del tempo della soffitta (1953).
“La soffitta fu per me un piccolo universo diafano. galleggiante
come una bolla di sapone, dentro a un grande universo
senza dimensione finita”

Ho trovato il posto per tutti i libri che amo, anche se mi sembra strano come Il Principe di Machiavelli e la divina opera dantesca possano convivere con Il Saggiatore di Galileo, gli scritti di Einstein e di Poincaré, i due volumi di filosofia del Pestalozza, l’opera di Cornelio Tacito di cui mi ha fatto omaggio Don Cesare Buti, insieme alle pubblicazioni di Fisica e di Elettronica e ai dodici volumi che raccolgono l’intera opera di Winckelmann.

Dove la pendenza del tetto schiaccia lo spazio e scherma l’ambiente dalla luce esterna, un gruppo di strumenti, assimilabile a un occhio composito, osserva e trascrive in autonomia, le informazioni che interessano per gli esperimenti in corso.

Sono le undici di sera del 23 settembre 1957; la temperatura è ideale come ideali sono questi momenti che torneranno a galleggiare ogniqualvolta con il pensiero entrerò in questa oasi dell’utopia, anche quando, forse, non ci sarà più.

La sola luce che mi consente di scrivere è quella della lampada azzurra, luce notturna riposante, che illumina anche la piccola lavagna nera sulla quale traccio, con la steatite, i bianchi geroglifici della mia cultura, mentre la scala numerata dell’R107, rischiarata da un filamento arancione, segna la frequenza che si accorda con la geometria di una delle antenne direttive che il tetto a capanna sostiene.

Le lancette fosforescenti dei marcatori di posizione che ho di fronte, indicano l’orientamento dei sistemi radianti e riceventi, mossi, da qui, con la semplice rotazione di una manopola potenziometrica, mentre in alto, dove sono installati i modulatori a onda quadra e gli stadi finali a radiofrequenza, la solita tarantola, incollata al soffitto con le ventose spalancate, è protetta dal grande isolatore in porcellana bianca, sul quale si appoggia il primo tratto dell’antenna filare, che poi continua la sua lunga campata fino ai primi tetti di via Coluccio Salutati.

Firenze, 23 settembre 1957

Dalla pagina del Diario di Bordo del 23 settembre 1957

Dopo un anno di lavoro e dopo aver superato difficoltà di ogni tipo, mi trovo ora dentro a questo spazio aereo dove la gravità delle cose è assente.

Dall’unica finestra vedo il cielo, pannello dinamico di luce, nel quale riesco a leggere le risposte ai miei curiosi problemi che tengono viva la tensione e l’attenzione verso le troppe incognite che ancora tormentano le equazioni del mio sistema.

Prima fase del tempo della soffitta (1953).
“La soffitta fu per me un piccolo universo diafano. galleggiante
come una bolla di sapone, dentro a un grande universo
senza dimensione finita”

Ho trovato il posto per tutti i libri che amo, anche se mi sembra strano come Il Principe di Machiavelli e la divina opera dantesca possano convivere con Il Saggiatore di Galileo, gli scritti di Einstein e di Poincaré, i due volumi di filosofia del Pestalozza, l’opera di Cornelio Tacito di cui mi ha fatto omaggio Don Cesare Buti, insieme alle pubblicazioni di Fisica e di Elettronica e ai dodici volumi che raccolgono l’intera opera di Winckelmann.

Dove la pendenza del tetto schiaccia lo spazio e scherma l’ambiente dalla luce esterna, un gruppo di strumenti, assimilabile a un occhio composito, osserva e trascrive in autonomia, le informazioni che interessano per gli esperimenti in corso.

Sono le undici di sera del 23 settembre 1957; la temperatura è ideale come ideali sono questi momenti che torneranno a galleggiare ogniqualvolta con il pensiero entrerò in questa oasi dell’utopia, anche quando, forse, non ci sarà più.

La sola luce che mi consente di scrivere è quella della lampada azzurra, luce notturna riposante, che illumina anche la piccola lavagna nera sulla quale traccio, con la steatite, i bianchi geroglifici della mia cultura, mentre la scala numerata dell’R107, rischiarata da un filamento arancione, segna la frequenza che si accorda con la geometria di una delle antenne direttive che il tetto a capanna sostiene.

Le lancette fosforescenti dei marcatori di posizione che ho di fronte, indicano l’orientamento dei sistemi radianti e riceventi, mossi, da qui, con la semplice rotazione di una manopola potenziometrica, mentre in alto, dove sono installati i modulatori a onda quadra e gli stadi finali a radiofrequenza, la solita tarantola, incollata al soffitto con le ventose spalancate, è protetta dal grande isolatore in porcellana bianca, sul quale si appoggia il primo tratto dell’antenna filare, che poi continua la sua lunga campata fino ai primi tetti di via Coluccio Salutati.

Firenze, 23 settembre 1957