Filosofia di un’idea

Quando si affacciò e poi si radicò in me l’idea di dar vita alla Micropoli, non avevo nè mezzi, né esperienza e i miei giorni erano impegnati nello studio accanito, quanto disorganico, e nella sperimentazione delle prime, semplici intuizioni.

A quel tempo il centro del mio Universo era la soffitta al numero 26 di via Bartolommeo Scala, dove ho vissuto anni indimenticabili, durante i quali ha preso “corpo sensibile” la poetica delle mie ricerche, nelle quali lo studio delle discipline scientifiche, umanistiche e artistiche, si fondeva con la formulazione di astrazioni e di paradossi, più vicini agli ossimorici “luoghi dell’utopia”, per questo, come un gioco d’azzardo, più ricchi di prospettive future.

Re-interpretazione dello spazio nelle storie di
Noè di Paolo Uccello (1979)

Dal tentativo ingenuo di ottenere moto perpetuo, impiegando speciali risonatori ad alta frequenza, alimentati dalla corrente continua prelevata a valle del sistema di rivelazione, a quello di misurare il ritardo con il quale un segnale radio poteva giungere al punto da dove era stato trasmesso, dopo aver percorso il giro della Terra.

L’osservazione al microscopio e al tempo stesso la scienza e la prosa di Galileo, la poesia e la scienza di Leopardi, l’arte e la matematica di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, l’arte dei divisionisti e il Futurismo, la musica di Bach e quella dodecafonica, fino ai primi tentativi di rappresentare metafore scientifiche con l’impiego di elementi appartenenti, tradizionalmente, al mondo dell’arte.

Poi, dopo aver filtrato e assimilato la filosofia derivante dallo studio della relatività di Einstein, del principio di indeterminazione di Heisenberg e del teorema di incompletezza di Gödel, la convinzione, oggi più forte di allora, che l’immagine della realtà poteva cambiare radicalmente in conseguenza di nuovi, più raffinati metodi di indagine sperimentale e di analisi dei risultati.

Ero convinto che la scienza fosse, come in effetti è spesso, nient’altro che un’ipotesi e le sue verità fossero sempre parziali e fortemente dipendenti dalle procedure di misura. Di fatto non si conoscono le cose, bensì gli strumenti che convenzionalmente si adottano per conoscerle e misurarle e, ovviamente, cambiando gli strumenti, cambia anche il punto di vista.

Al tempo stesso sapevo che, nonostante questo elevato grado di disordine, di indeterminazione e di complessità, l’uomo era riuscito a mettere a punto una serie di metodi per descrivere e prevedere i fenomeni fisici; modelli ingegnosi, purtuttavia troppo semplici per sostituire una realtà infinitamente più ricca e complessa.

Isaac Newton aveva ribaltato un piano complesso di conoscenze intorno al quale aveva ruotato il funzionamento del mondo fino a quel momento, ma ogni volta che si trovava di fronte alle difficoltà incontrate dalla fisica nel fornire una spiegazione completa dell’Universo, evocava il Grande Orologiaio a risolverle.

Rimanevano, e pensavo sarebbero rimasti difficilmente spiegabili, due aspetti della natura: l’immensità del cosmo, esteso nello spazio e nel tempo con una bellezza trasparente alla ragione, e la presenza in questo Universo di una “canna pensante”, l’uomo, che quella bellezza è capace di cogliere.

A questo punto mi parve che l’unica strada da percorrere fosse quella di affermare l’importanza dell’immaginazione che, paradossalmente, per la sua natura irrazionale, si sarebbe allontanata dalla scienza nel momento stesso in cui fosse riuscita a intuire verità scientifiche quali l’infinito, il legame tra uno spazio e un tempo…

E siccome la poesia, quando è tale, diversamente dalla scienza, non è mai un’ipotesi, il pensiero creativo, che diventa poesia, non avrebbe dovuto cercare di costruire un sistema ma di porsi le domande sul significato della vita, al quale nessun progresso scientifico e tecnologico potrà dare una risposta.

Giacomo Leopardi aveva scritto: “L’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vita si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario

E ancora: “L’uomo non desidera riconoscere ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti e quindi esclude l’infinito“.

Da allora si formò in me l’idea, che ha poi condizionato l’intero corso della mia vita, che al di là, ad esempio, dei tentativi di Russell e di Whitehead di formalizzare in modo logicamente ineccepibile e completamente coerente ogni ragionamento matematico, al di là del dogma fondamentale del pensiero scientifico moderno, espresso nel principio di oggettività, ogni spiegazione meccanicistica e causale (come sistema di cause ed effetti) fosse svuotata di senso.

Durante un soggiorno a Vienna, nell’agosto 1996, mi recai al numero 19 di Kundmanngasse, per visitare, dall’esterno, la casa squadrata e razionale di Ludwig Wittgenstein.

Quell’edificio mi sembrò la metafora architettonica dell’affermazione apodittica contenuta nel Tractatus Logico-Philosophicus , scritto nel 1921 dal filosofo austriaco: “Quel che è possibile dire, può essere detto in modo chiaro…[e] su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere“.

Ma qualche anno più tardi, una nuova dimensione epistemologica sarebbe stata aperta dalle acquisizioni della meccanica quantistica, in virtù delle quali ci sarebbe stato da chiedersi di che cosa veramente si potesse parlare in modo “chiaro”, quando tutte le asserzioni venivano considerate valide entro certi limiti?

Così, tra mille dubbi e tra scontate certezze, mi ero chiesto più volte, fin dai primi tempi, se l’Universo fisico potesse essere governato, al suo interno, da una teleologia ad esso precedente che consentisse di scoprire i rapporti mezzo-fine non casusa-effetto, se esistesse cioè un metodo di ricerca non appartenente al modello generale così come la scienza aveva sviluppato da Galileo in poi e da noi considerato come unica conoscenza possibile. Questione aporetica, comunque al di fuori e oltre ogni dimensione metafisica, che non lasciava spazio a una qualche soluzione. D’altra parte, la mia personale convinzione coincideva, e coincide tuttora, con l’idea che l’architetto dell’Universo corrispondesse e corrisponda a quel “deus sive natura” spinoziano, così come ero sempre più convinto dell’infondatezza dell’idea del “principio antropico” di Brandon Carter , che di fatto avrebbe permesso e permetterebbe l’esistenza della vita come noi la conosciamo, o di quella di John Barrow e Frank Tipler , secondo la quale gli osservatori sono necessari all’esistenza dell’Universo perché necessari alla sua conoscenza. Ma al tempo stesso mi rendevo conto che il sistema logico-deduttivo aveva ormai dimostrato di essere insufficiente, ragion per cui avremmo dovuto considerarlo non esclusivo nell’ambito della ricerca scientifica, bensì arricchirlo e renderlo più utile e significativo, contaminandolo con i tanti e variegati procedimenti che la nostra mente riesce a produrre; procedimenti peculiari della mente umana che la nostra scienza non sa modellare e forse per questo tende a ignorare.

Mi convinsi così che l’unica strada percorribile sarebbe stata quella di recuperare il valore dell’intuizione, che può arrivare a intendere la realtà fisica nel suo significato di simbolo di una ulteriore realtà metafisica, e far convivere quindi fisica e metafisica, logica e immaginazione, razionalità e passione.

Firenze, febbraio 1998

Filosofia di un’idea

Quando si affacciò e poi si radicò in me l’idea di dar vita alla Micropoli, non avevo nè mezzi, né esperienza e i miei giorni erano impegnati nello studio accanito, quanto disorganico, e nella sperimentazione delle prime, semplici intuizioni.

A quel tempo il centro del mio Universo era la soffitta al numero 26 di via Bartolommeo Scala, dove ho vissuto anni indimenticabili, durante i quali ha preso “corpo sensibile” la poetica delle mie ricerche, nelle quali lo studio delle discipline scientifiche, umanistiche e artistiche, si fondeva con la formulazione di astrazioni e di paradossi, più vicini agli ossimorici “luoghi dell’utopia”, per questo, come un gioco d’azzardo, più ricchi di prospettive future.

Re-interpretazione dello spazio nelle storie di
Noè di Paolo Uccello (1979)

Dal tentativo ingenuo di ottenere moto perpetuo, impiegando speciali risonatori ad alta frequenza, alimentati dalla corrente continua prelevata a valle del sistema di rivelazione, a quello di misurare il ritardo con il quale un segnale radio poteva giungere al punto da dove era stato trasmesso, dopo aver percorso il giro della Terra.

L’osservazione al microscopio e al tempo stesso la scienza e la prosa di Galileo, la poesia e la scienza di Leopardi, l’arte e la matematica di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, l’arte dei divisionisti e il Futurismo, la musica di Bach e quella dodecafonica, fino ai primi tentativi di rappresentare metafore scientifiche con l’impiego di elementi appartenenti, tradizionalmente, al mondo dell’arte.

Poi, dopo aver filtrato e assimilato la filosofia derivante dallo studio della relatività di Einstein, del principio di indeterminazione di Heisenberg e del teorema di incompletezza di Gödel, la convinzione, oggi più forte di allora, che l’immagine della realtà poteva cambiare radicalmente in conseguenza di nuovi, più raffinati metodi di indagine sperimentale e di analisi dei risultati.

Ero convinto che la scienza fosse, come in effetti è spesso, nient’altro che un’ipotesi e le sue verità fossero sempre parziali e fortemente dipendenti dalle procedure di misura. Di fatto non si conoscono le cose, bensì gli strumenti che convenzionalmente si adottano per conoscerle e misurarle e, ovviamente, cambiando gli strumenti, cambia anche il punto di vista.

Al tempo stesso sapevo che, nonostante questo elevato grado di disordine, di indeterminazione e di complessità, l’uomo era riuscito a mettere a punto una serie di metodi per descrivere e prevedere i fenomeni fisici; modelli ingegnosi, purtuttavia troppo semplici per sostituire una realtà infinitamente più ricca e complessa.

Isaac Newton aveva ribaltato un piano complesso di conoscenze intorno al quale aveva ruotato il funzionamento del mondo fino a quel momento, ma ogni volta che si trovava di fronte alle difficoltà incontrate dalla fisica nel fornire una spiegazione completa dell’Universo, evocava il Grande Orologiaio a risolverle.

Rimanevano, e pensavo sarebbero rimasti difficilmente spiegabili, due aspetti della natura: l’immensità del cosmo, esteso nello spazio e nel tempo con una bellezza trasparente alla ragione, e la presenza in questo Universo di una “canna pensante”, l’uomo, che quella bellezza è capace di cogliere.

A questo punto mi parve che l’unica strada da percorrere fosse quella di affermare l’importanza dell’immaginazione che, paradossalmente, per la sua natura irrazionale, si sarebbe allontanata dalla scienza nel momento stesso in cui fosse riuscita a intuire verità scientifiche quali l’infinito, il legame tra uno spazio e un tempo…

E siccome la poesia, quando è tale, diversamente dalla scienza, non è mai un’ipotesi, il pensiero creativo, che diventa poesia, non avrebbe dovuto cercare di costruire un sistema ma di porsi le domande sul significato della vita, al quale nessun progresso scientifico e tecnologico potrà dare una risposta.

Giacomo Leopardi aveva scritto: “L’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vita si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario

E ancora: “L’uomo non desidera riconoscere ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti e quindi esclude l’infinito“.

Da allora si formò in me l’idea, che ha poi condizionato l’intero corso della mia vita, che al di là, ad esempio, dei tentativi di Russell e di Whitehead di formalizzare in modo logicamente ineccepibile e completamente coerente ogni ragionamento matematico, al di là del dogma fondamentale del pensiero scientifico moderno, espresso nel principio di oggettività, ogni spiegazione meccanicistica e causale (come sistema di cause ed effetti) fosse svuotata di senso.

Durante un soggiorno a Vienna, nell’agosto 1996, mi recai al numero 19 di Kundmanngasse, per visitare, dall’esterno, la casa squadrata e razionale di Ludwig Wittgenstein.

Quell’edificio mi sembrò la metafora architettonica dell’affermazione apodittica contenuta nel Tractatus Logico-Philosophicus , scritto nel 1921 dal filosofo austriaco: “Quel che è possibile dire, può essere detto in modo chiaro…[e] su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere“.

Ma qualche anno più tardi, una nuova dimensione epistemologica sarebbe stata aperta dalle acquisizioni della meccanica quantistica, in virtù delle quali ci sarebbe stato da chiedersi di che cosa veramente si potesse parlare in modo “chiaro”, quando tutte le asserzioni venivano considerate valide entro certi limiti?

Così, tra mille dubbi e tra scontate certezze, mi ero chiesto più volte, fin dai primi tempi, se l’Universo fisico potesse essere governato, al suo interno, da una teleologia ad esso precedente che consentisse di scoprire i rapporti mezzo-fine non casusa-effetto, se esistesse cioè un metodo di ricerca non appartenente al modello generale così come la scienza aveva sviluppato da Galileo in poi e da noi considerato come unica conoscenza possibile. Questione aporetica, comunque al di fuori e oltre ogni dimensione metafisica, che non lasciava spazio a una qualche soluzione. D’altra parte, la mia personale convinzione coincideva, e coincide tuttora, con l’idea che l’architetto dell’Universo corrispondesse e corrisponda a quel “deus sive natura” spinoziano, così come ero sempre più convinto dell’infondatezza dell’idea del “principio antropico” di Brandon Carter , che di fatto avrebbe permesso e permetterebbe l’esistenza della vita come noi la conosciamo, o di quella di John Barrow e Frank Tipler , secondo la quale gli osservatori sono necessari all’esistenza dell’Universo perché necessari alla sua conoscenza. Ma al tempo stesso mi rendevo conto che il sistema logico-deduttivo aveva ormai dimostrato di essere insufficiente, ragion per cui avremmo dovuto considerarlo non esclusivo nell’ambito della ricerca scientifica, bensì arricchirlo e renderlo più utile e significativo, contaminandolo con i tanti e variegati procedimenti che la nostra mente riesce a produrre; procedimenti peculiari della mente umana che la nostra scienza non sa modellare e forse per questo tende a ignorare.

Mi convinsi così che l’unica strada percorribile sarebbe stata quella di recuperare il valore dell’intuizione, che può arrivare a intendere la realtà fisica nel suo significato di simbolo di una ulteriore realtà metafisica, e far convivere quindi fisica e metafisica, logica e immaginazione, razionalità e passione.

Firenze, febbraio 1998